Gigantomachia, primo viaggio nella Metafisica del calcio
Metafisica del calcio. In questa rubrica assoceremo ogni settimana tre opere-simbolo della filosofia occidentale a tre personalità calcistiche, giocando a rappresentare ciascun protagonista come incarnazione e compimento di un pensiero filosofico. Abbiamo dedicato il primo capitolo a tre calciatori che hanno sfidato i propri limiti terreni per conquistare un posto d’onore sull’Olimpo del calcio, rileggendoli brevemente attraverso le opere di tre grandi pensatori moderni. In ciascuno, tre modi diversi di intendere il calcio e la vita. Gigantomachia, primo viaggio nella Metafisica del calcio.
–Kant pensa Javier Zanetti
–Feurbach pensa Zlatan Ibrahimovic
–Hegel pensa Francesco Totti
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– Javier Adelmar Zanetti- Critica della ragion pratica, Immanuel Kant

Javier Adelmar Zanetti
“Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica , Immanuel Kant). Sempre così uguale a se stesso, su questa massima Zanetti ha poco a poco costruito la propria leggenda da capitano dell’Inter e dell’Argentina . Esempio naturale di fedeltà e consacrazione a una causa, la sua carriera infinita è stata contraddistinta soprattutto da una continuità incurante di qualsiasi fattore esterno. Le sole due espulsioni collezionate in carriera, il record di 162 partite giocate consecutivamente e gli allenamenti in solitaria il giorno del matrimonio fanno della bandiera nerazzurra un perfetto kantiano applicato al mondo del calcio. El hombre vertical Rigoroso e inscalfibile come la sua pettinatura, potente e penetrante come le sue cavalcate .
“la mia è la storia di un uomo che ha dato tutto”, glissa nelle interviste post ritiro…La fede incrollabile nel suo lavoro lo ha ripagato quando nessuno ci credeva più, col celebre triplete del 2010. Un trionfo che lo ha visto gioire intimamente, all’ombra dei riflettori e degli stoccatori Sneijder e Milito, per tornare di nuovo al lavoro a portare sulle spalle una squadra in declino per altri 4 lunghi anni, sopportando panchine e tracolli sportivi fino al 10 maggio 2014, giorno di un congedo composto e senza rimpianti di un uomo che ha vissuto un sogno giorno per giorno senza mai tradire la “legge morale dentro di se”. Un uomo e un calciatore gigantesco ed essenziale, kantianamente consacrato al suo lavoro di Capitano. Javier Adelmar Zanetti.
– Zlatan Ibrahimovic-“l’essenza del cristianesimo” , Ludwig Feuerbach

“Non posso che compiacermi di quanto sono perfetto”. Zlatan Ibrahimovic.
Cosa c’è di più metafisico di un dio che non pensa nulla di inferiore a se stesso ? Cosa c’è di più metafisico, nel nostro universo calcistico, di Zlatan Ibrahimovic? In una cultura sportiva dominata dall’etica protestante del lavoro e dell’umiltà la figura dello svedese spicca per la disinvoltura con cui non esita ad affermarsi causa prima dei successi propri e dei suoi compagni, non tenendo mai da conto fattori che non siano strettamente legati alla sua volontà . Il suo pellegrinaggio vincente , oltre a soddisfare le sue esigenze economiche, gli ha consentito in carriera di dar prova coi fatti di un’ onnipotenza che sente addosso sin dai primi calci nel parco di Rosengard, nella periferia di Malmoe. Suo padre, racconta Zlatan: “Era dotato di un orgoglio smisurato che lo metteva bene in guardia dal chiedere aiuto a qualcuno” E anche lui, partendo dalle sue origini, ha sviluppato un modo tutto suo di sentirsi solo: una sensazione di rotondità e interezza su cui ha fondato il proprio modo di essere e di giocare a calcio, con un alto tasso di autoironia mai banale in un calciatore.
“Non è stato dio a creare l’uomo bensì l’uomo a creare dio”,
scriveva Feuerbach in polemica con la filosofia del suo tempo, accusata di essere una trasposizione laica della teologia. Un rovesciamento che si presta bene a sunto della carriera di Zlatan: “Non è mai stato il contesto a determinare Ibrahimovic ma sempre Ibrahimovic a determinare il contesto” qualunque esso fosse. Una consapevolezza profonda che farebbe scivolare la maggior parte degli uomini in un eccesso di alterigia controproducente e che invece Ibra ha plasmato a suo vantaggio tappa dopo tappa, accentrando su di sé un carico di responsabilità e aspettative non da poco.
Se il suo carattere non lo ha portato alla deriva di un narcisismo compulsivo lo deve paradossalmente alla comprensione dei suoi limiti e a una visione globale del calcio che fa di lui un attaccante tutt’altro che egocentrico nel suo modo di intendere il ruolo: nel corso del tempo il suo gioco è diventato sempre più essenziale e buona parte del merito spetta al suo primo allenatore italiano: Fabio capello. Il quale parlando di lui ha tracciato un profilo abbastanza sorprendente rispetto al l’immaginario comune:
“Quando arrivò alla Juventus non sapeva calciare, però sapeva ascoltare e questa è una cosa fondamentale”.
Alla luce di chi lo conosce, più che di onnipotenza Zlatan ci fa mostra di una continua attestazione di unicità e indipendenza, la stessa che Feuerbach esige da parte dell’uomo rispetto a dio: un rapporto che rovesciandosi libera le sue energie più creative e lo rende per la prima volta autentico padrone di sé.
Alla domanda di un giornalista su quale fosse il suo idolo Ibra ha risposto: “Muhammad Alì”, perché “era perfetto nel suo saper fare quello che prometteva e nessuno ha mai potuto dire che Alì era uno che parlava e basta. Un giorno vorrei si potesse dire la stessa cosa di Zlatan Ibrahimovic e per questo prometto quello che posso:cioè di giocare sempre il mio calcio.”
In un epoca di spaesamento per un dio che è morto ed un uomo che non è ancora all’altezza della sua sostituzione , il gigante di Malmoe è la perfetta realizzazione del calciatore che accoglie fieramente lo spirito di un dio su di sé, e nel farlo pone a sé stesso un destino e dei compiti grandi. In controtendenza a un panorama contemporaneo in cui assistiamo spesso a all’incapacità generazionale dei nuovi calciatori di imprimere un marchio di personalità ad un calcio sempre più modellato su”un etica protestante del lavoro e della fatica” dove il risultato è l’unica cifra universalmente valida senza la quale ogni affermazione e atteggiamento sopra le righe paga lo scotto della gogna mediatica, onnipervasiva quasi quanto un dio; la stessa che non perde mai occasione di rinfacciare a Ibrahimovic la mancata vittoria di una Champions league con l’allusione di essere un giocatore che accentra troppo la squadra sul proprio gioco . Quel che è certo, finché Zlatan non deciderà di smettere , è che bisogna guardarsi bene dal dare un dio per Finito! E con un contratto coi Galaxy in scadenza a dicembre e un possibile rientro in Italia… mai dire mai.
– Francesco Totti- Fenomenologia dello spirito, Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Tesi: “Nun te preoccupà, mo je faccio er cucchiaio!”
Antitesi (Paolo Maldini): “Ma che sei pazzo? siamo a una semifinale degli Europei!”
Tesi: “Gol, l’Italia va in finale”
29 Giugno 2000, Europei Belgio-Olanda
Se Hegel vivesse oggi e scegliesse di interpretare lo spirito del proprio tempo attraverso il calcio , dedicherebbe a Francesco Totti almeno un capitolo della sua Fenomenologia dello Spirito! Il che suona francamente ridicolo… La romana visceralita’ di Totti iscritta all’interno di un sistema filosofico sistematico come quello hegeliano stona abbastanza . Ma forse non è assurdo credere che se si fosse recato allo stadio il pomeriggio del 28 Maggio 2017, il professore di Tubinga vi avrebbe scorto qualcosa di straordinario, qualcosa che forse, più dell’eroe greco o di Napoleone ,gli avrebbe spalancato le porte alla comprensione di quell’assoluto che in Hegel non consisteva tanto in una realtà statica e immanente, come un Dio che presiede sul mondo sensibile, quanto in un momento di profonda conciliazione in cui la vita si manifesta in tutta la sua interezza .
“Pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fiore assoluto dell’individuo non è dentro di lui ma nell umanità intera”. W. G. Hegel.

Per 24 anni di carriera Roma è stato Tutto il mondo di Totti e Totti il figlio prediletto di una piazza che in lui ha riposto sogni e valori, considerandolo un totem nonchè il giocatore più talentuoso della propria storia. In questa totalità vi si sono riconosciuti entrambi, rendendosi imprescindibili l’uno con l’altro : Totti per Roma è stato come un re bambino, a cui tutto concedere in cambio di magie e fedeltà incondizionata;la Roma per Totti una culla e una missione: strappare all’anonimato una squadra e una piazza assettata di vittorie ma soprattutto di miti, in una fase storica in cui la Roma dopo l’addio di Giannini , rischiava di soffrire l’assenza di una bandiera. In questo destino comune si sancisce quello che per Hegel è un po’ il senso dello spirito assoluto: il reciproco riconoscersi e appartenersi di un individuo e il suo mondo di riferimento , che nel caso di Totti e la Roma è da subito una compenetrazione totale, primordiale e a volte esasperata: l’orgoglio di Totti per la sua romanità e il suo romanismo (soprattutto quando feriti, come in occasione dell’espulsione su Balotelli) è ancora quello di un bambino nei confronti della mamma dalla quale non vuole e non può emanciparsi, così come per la tifoseria giallorossa mettere in discussione Totti è il più grave sacrilegio che un uomo possa commettere(chiedere a Spalletti). La dimensione di questo rapporto è stata sottovalutata da Pallotta che ha sempre dato l’impressione di considerare Totti più come testimonial di una causa piuttosto che sacerdote di un tempio,quel tempio che era lo stadio olimpico nel pomeriggio di quel 28 Maggio, quando ogni presente dimenticava se stesso e lo ritrovava negli occhi lucidi del vicino o nell’abbraccio con un estraneo, ognuno parte di un popolo unito come mai ad accompagnare verso l’ignoto il proprio simbolo quasi fosse un fratello di sangue, ormai rassegnato ad uscire per sempre dal suo elemento, quello che per Totti è stato sempre e sempre sarà solo un campo di calcio. Se questa empatia ha avuto un impatto tale da bucare gli schermi televisivi e rendere emotivamente partecipe anche chi quel giorno non era allo stadio o non era nemmeno un tifoso della Roma, è perché tutti, chi più chi meno, ci siamo ritrovati come sospesi su una faglia che separa il tempo dall’eternità : da una parte il pupone, dall’altra il mito ; se il primo ha svegliato il bambino che è in noi, incredulo che il tempo debba in qualche modo scorrere, il secondo ci ha ricordato che il calcio ha ancora il potere di regalare momenti di comunione profonda, dove i cuori di migliaia di sconosciuti possono sincronizzarsi al di fuori di qualsiasi senso pratico e individualistico, in una dimensione di gratuità sempre più difficile da reperire in altre sfere del vivere sociale . D’altro canto c’è anche il lato tragico di Totti che ha vissuto in maniera così totale la sua passione da trovarsi sicuramente un po’ smarrito una volta che la vita lo ha costretto ad aprirsi a nuove strade. Con la coscienza infelice di chi viene separato dal (suo) Tutto.
“ho visto lo spirito del mondo in maglietta e pantaloncini sormontare un campo di calcio”. (Georg Wilehlm Hegel, 28 Maggio 2017)
Articolo e Rubrica a cura di Giovanni Biassoni.